#14 Fear of the dark

Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu, rispetto all’altro, sei l’altro.
Andrea Camilleri

Iron Maiden – Fear of the dark

– In copertina Mimmo Rotella – La Paura, 2004 –

Sono stata cresciuta con l’idea che la paura è una cosa di cui ci si deve vergognare: i deboli hanno paura, i forti non ne hanno mai.
È un’idea che trovo abominevole e disumanizzante, se qualcun altro mi dicesse queste cose so che avrei difficoltà a non infastidirmi e a non ingaggiare una discussione.
Eppure, in realtà questa è la mia idea: cioè non è proprio mia-mia nel senso che l’ho pensata io, ma è mia nella misura in cui non è pensata da me ma è dentro di me.

Si tratta di un elemento costante della mia vita.

I miei amici scherzano dicendo che sono l’ultima persona che chiamerebbero quando c’è un terremoto.
I miei colleghi mi guardano perplessi quando gli dico “dai, togliamoci la mascherina che siamo tra noi”.
Ogni volta che si parla di (paura della) morte mi ritrovo a pensare che a me tutto sommato non me ne frega niente, ma non lo dico mai a voce alta.
In un’apocalisse zombie io morirei per prima perché probabilmente starei lì a dire “vabbè, dai…”

Io non ho paura.

In questo periodo in cui questa emozione è così dominante nelle parole e nei vissuti delle persone, però, ho capito una cosa nuova: non è vero che io non ho paura, semplicemente non la so ascoltare quando la provo.
Come se fosse una lingua straniera che non conosco, sento dei suoni ma non capisco cosa vogliano dire.
Quello che succede sistematicamente è che, non riconoscendola, non riesco a proteggermi perché non riesco a camminare con quel passo attento e allertato che la paura ci fa adottare su un terreno franoso.
Quando mi accorgo del pericolo è solo perché sono già caduta e mi sono fatta tanto male.
E mi sono ritrovata a pensare che forse la paura non gioca contro di noi ma è un’amica che ci protegge, ci vuole bene, si prende cura di noi.

Mi ci vuole un grande sforzo per tradurre tutti quei piccoli segnali che il mio corpo emette in un’emozione che possa comprendere, non conosco questa lingua da debole ma posso impararla, voglio impararla.

Voglio imparare ad avere paura.

Z.

18 maggio 2020


Apro gli occhi, non sono nel mio letto, per la prima volta da mesi. Ho dormito molto, è quasi mezzogiorno. Allungo una mano e prendo il cellulare: più di 20 messaggi. Scorro velocemente, non apro nessuna chat, rimetto il cellulare sul comodino. Sdraiata sul letto sento il battito cardiaco aumentare, il respiro farsi più affannato, un peso comparire sul petto.
Sensazioni che riconosco e che caratterizzano una fedele compagna, l’ansia.

Che succede? Rifletto velocemente: oggi è il giorno in cui ricomincia tutto, entriamo nella Fase 2.

Non sono stati mesi scevri da preoccupazioni: smarrimento, dubbi, incognite assumevano la forma delle mie fobie e paure più grandi e venivano a farmi visita, a volte la sera, più frequentemente la notte.
Ma dov’era finita questa angoscia, leggera ma costante, che accompagnava la mia vita?
Perché adesso che la sento di nuovo, realizzo che non c’era più.

Provo a darle voce, la racconto a chi è con me, ne scrivo, ma sento che manca qualcosa.
Poi, mentre scorro la mia bacheca fb, incontro una storia illustrata dal titolo Fase 2 ed eccola lì: in quei disegni e in quelle parole è raccontato esattamente ciò che sento.
In questi mesi ho potuto sperimentare dei ritmi diversi, sono diminuite le aspettative esterne e interne, si sono liberati degli spazi, si è attenuata la spinta perenne a “fare”, a produrre, a essere attiva e operativa, presente, rispondente, nel lavoro e nello studio, ma anche nelle relazioni.

Ho paura di dimenticarmi tutto questo.
Ho paura di riadattarmi al mondo, al ritmo che mi impone e che io mi impongo.
Ho paura di non aver imparato niente, di non riuscire a portare con me ciò che ho sentito e che il mostro del fumetto racconta così:

Di recente un amico olandese mi ha mandato una foto: una frase pronunciata da Conte in uno dei suoi primi discorsi alla nazione a inizio quarantena è stata tradotta e appesa sulla parete di un hotel di una cittadina nel sud dell’Olanda. Quella stessa frase, dopo averla sentita pronunciare in diretta e avermi colpita per la sua ampollosità e retorica, l’avevo scritta e appesa sul frigo di casa, in un moto tra il serio e il faceto.
Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore e per correre insieme più veloci domani”. Sul calore degli abbracci nulla da ridire, ma io non voglio correre più veloce, né da sola, né insieme.
Che anche questo scriverne oggi possa essere un modo per ricordarmelo.

Q

Rob Art Illustrazioni è la pagina di Roberta Guizzardi, illustratrice psicoterapeuta di cui noi Cactus ci siamo innamorat*

Di paura e tempo che passa, uno Zerocalcare d’annata (si, esiste da molto prima di Rebibbia Quaratine e non ne ha mai sbagliata una!).

Avete mai sentito il verso di una scimmia che ha paura?

Il problema. Avevo 12 anni e a scuola non avevo amici, non riuscivo proprio a farmene. Le uniche interazioni sociali che avevo erano prese in giro nei miei confronti. Cercando di dare un senso a questa situazione avevo dato la colpa al mio aspetto fisico, il che aggiungeva una dimensione di ineluttabilità e quasi peggiorava le cose: insomma il corpo se non è gradevole non puoi farci niente giusto? 

Vi siete mai chiesti com’è nato l’umorismo?

La risoluzione. Ebbi poi l’illuminazione guardando un film di Woody Allen, non ricordo se Amore e guerra o Il dormiglione. Non era certo un adone lui, però grazie all’ironia – all’autoironia specialmente – appariva brillante, gradevole, intelligente. Sembrava proprio avere un certo successo e questo, nella mia mente, era avvenuto trasformando le sue debolezze in risorse. Decisi che sarei diventato come lui e così, preadolescente, ho cominciato a muovermi nel mondo, ridendo e facendo ridere.

Quindi decisi che avrei seguito questa strada: dal giorno dopo a scuola avrei cominciato a ironizzare, prendere in giro gli altri ma soprattutto me stesso.

La risata deriva dal verso che fa l’uomo-scimmia quando ha paura.


Lenny Bruce, il rivoluzionario comedian statunitense, raccontava che quando aveva paura e nessuna chance di reagire o scappare, scoppiava a ridere. Ricordo che quell’aneddoto mi colpì molto. 

Risata: un segnale vocale per comunicare agli altri membri del gruppo una situazione di scampato pericolo e anche un grido di trionfo o di scherno per il nemico catturato.

Non c’è consenso scientifico unanime intorno all’idea che l’umorismo abbia origini biologiche nella paura ma è una teoria affascinante, almeno per me. Negli ultimi mesi parlo con la gente e realizzo che facciamo mille battute, guardo i social e vedo la quantità di meme, video e immagini umoristiche, e all’inizio penso: “che strano: siamo nel mezzo dell’evento globale più grave dalla seconda guerra mondiale e non siamo più seri di prima anzi, la mia sensazione è che abbiamo più voglia di ridere!”. Poi nei momenti in cui sono più serio sento forte lo spavento, e allora finalmente capisco. 

“Chi ride è libero, non ha paura.”

Grazie paura, per rendermi serio e farmi capire ciò che è pericoloso.
Grazie risata, per rendere tollerabile la paura.

Larsen