°Il precariato ci ha cambiato

La precarietà è la minacciosa e tangibile possibilità che all’improvviso tutto possa capitolare.

Pensiamo a un edificio pericolante: grande, massiccio ma allo stesso tempo così visibilmente fragile. Come vi sentireste a vivere in una casa di cui il pavimento minacci costantemente di crollarvi sotto i piedi?

Però è proprio questa l’esperienza lavorativa delle ultime due generazioni.

Da una parte i “millenials”, nati e cresciuti nel confronto con la solidità e il garantismo, a volte degenerante nel clientelare, delle carriere di genitori e nonni e l’aver vissuto in pieno il processo collettivo di perdita di diritti, tutele, opulenza economica e di possibilità di impiego.

Dall’altra la “generazione Z”, “nativi digitali” per cui la crisi economica e la precarietà lavorativa sono normalità, dati di fatto precostituiti, ineluttabili e indiscutibili.

In un’ottica di benessere psicologico, potremmo avere la tentazione di contrappesare le rischiose ma eccitanti possibilità della “società liquida” al sicuro ma mortifero posto fisso, ma questo non ha molto senso per due ragioni strutturali. La prima è che non c’è più possibilità di scelta, e senza quella già la stanza si restringe, l’aria è più rarefatta; la seconda si ricollega al dualismo ansia/eccitazione.

La novità, il cambiamento e la varietà, in questo caso riferiti alla situazione lavorativa, portano con sé una doppia carica: una collegata alla paura che andrà male, l’altra alla speranza che qualcosa di bello arriverà, che le cose cambieranno in meglio.

Il problema del precariato, uno dei tanti, è che c’è troppo poco da guadagnare e troppo da perdere: gli impieghi sono pochi, pagati poco e spesso anche poco gratificanti e perdendone uno non c’è garanzia di trovarne di buoni in tempi rapidi. Nel frattempo che si cerca poi, nessuna tutela o garanzia: è come fare l’equilibrista senza una rete sotto che ci sorregge se cadiamo.

«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.»

Il lavoro ci fornisce il denaro e in una società imperniata sul soldo senza la certezza dell’impiego vengono meno le fondamenta su cui edificare il nostro futuro. Tutto è labile, incerto e volatile. Mentre il panico diventa sensazione familiare e quotidiana, di sfondo ci sentiamo rassegnati e impotenti, svuotati dalle energie vitali che usiamo di continuo per non andare in pezzi, mentre usufruiamo di distrazioni e dipendenze per distoglierci dalla sensazione di rovina imminente.

Viviamo esperienze rapide, fugaci, incerte e superficiali, mentre viviamo in un senso generale di solitudine e isolamento, se non dissociazione, sia dall’esterno che dai nostri corpi. Non c’è nel nostro ambiente base sicura sulla quale poter progettare e il nostro assetto mentale di conseguenza cambia, si adatta.

Credo che sia qui che emerga il nostro innato senso di sopravvivenza, lo spirito di adattamento che ci spinge ad abbracciare la nuova realtà e diventare opportunisti e camaleontici. Individualisti con sempre meno scrupoli di ottenere vantaggi, anche a discapito degli altri. Vedere tutto come un gioco a somma zero, non cercare di cambiare le cose ma mutare i geni come pesci in un mare inquinato, adattandovisi.

Una volta mi è stato detto che se scoprissi che l’ambiente in cui mi trovo mi crei sofferenza, e decidessi di fare qualcosa, avrei due scelte: rifuggirne o cercare di cambiarlo, creandone uno nuovo. Superare quindi la tentazione di colludere ma bensì reagire, introdurre idee nuove, scendere sempre a meno compromessi. Cercare di influenzare l’ambiente senza arrendersi alla ineluttabilità degli eventi.

La “lotta” non come sinonimo di violenta distruzione, ma di fronteggiare ciò che arreca danno, uno sforzo vitale di ciclica decostruzione e ricostruzione. Gettare fondamenta nuove, basate sulla solidarietà e il rispetto non solo della vita umana, ma del suo dispiegamento e fioritura al meglio delle possibilità proprie e degli altri.

Il concetto che “È impossibile per chiunque essere molto felice finché in generale non siamo tutti più felici”: la differenza fondamentale tra l’essere vittime o parassiti del proprio ambiente, o dall’esserne in sintonia, in un processo di scambio e reciproca e sostenibile salvaguardia.

Con l’augurio che alla precarietà si sostituisca presto l’integrità, buon primo maggio a tutte e a tutti. 

Francesco Gangeri