Storie di comunità ai tempi del Coronavirus

G. è un uomo di 50 anni. Un uomo della Lodi bene, con una famiglia benestante alle spalle.
All’età di 18 anni si iscrive all’università. Sceglie di studiare economia. Deve competere con la
sorella, lei vuole fare la giurista da grande.

G. studia e frequenta i locali di Piazza della Vittoria il sabato sera. Insieme agli amici tira
cocaina.

E poi le serate in discoteca, i week end al lago, in inverno si va a sciare a Madonna di Campiglio – perché si sa i ragazzi fighetti frequentano quei posti lì- così come le vacanze rigorosamente a
Porto Cervo in Sardegna. E G. continua a sniffare cocaina. Ad un certo punto tanta cocaina,
alcol, donne e allora si viaggia. I soldi ci sono, lo studio può aspettare. Si va nel più remoto
angolo del mondo e si prova anche il peyote.

G. torna nella sua Lodi e ha un pensiero fisso in testa insieme alla cocaina.

Ha contratto un virus, infetterà chiunque. Lui è portatore della fine del mondo.

G. continua a ripeterselo mentre sniffa. È angosciato, è giovane ma sente dentro di sé la
pesantezza della vita e della morte. Gli dicono che ha un delirio. Le sostanze hanno slatentizzato
qualcosa che già c’era in lui.

G. continua a ripetere che lui contagerà tutti, che non è pazzo e che è così. Le morti dei suoi cari,
siano essi familiari che amici, vengono lette come conferme di ciò che sta dicendo.

Lui ha un virus, lui è un virus. I pazzi sono i medici, psicologi e psichiatri che incontra lungo i
corridoi dei vari ambulatori e delle comunità poi. G. tiene dentro di sé la verità del mondo. Lui è
il messia di un messaggio di morte.

Due settimane fa di fronte alle notizie allarmanti dei giornali, ho pensato nel week end che mi
separava dal mio turno del lunedì mattina, a G. Ero preoccupata che quel delirio tenuto a bada
negli anni, potesse riprendere vita e spazio nella sua mente.

Entro in struttura. Mi aspetta seduto sul divano e mi dice: “Valeria, hai visto. È così”.

In questo momento niente sembra semplice, ogni cosa sembra richiedere uno sforzo in più. Ogni
movimento o non movimento è pensato, ogni decisione richiede più tempo mentre le emozioni
dei pazienti e degli operatori sembrano correre come il contagio del coronavirus. Non ci
possiamo toccare ma i vissuti sono talmente potenti da non rispettare le distanze di sicurezza.

In questo periodo mi sento satura. Benchè abbia molto più tempo libero, il mio pensiero, le mie
riflessioni sembrano essere paralizzate. Mi sto difendendo mi dico – e osservo come i pazienti
stiano mettendo in atto meccanismi di difesa più esacerbati ma pur sempre uguali ai nostri.

Non riesco a riflettere forse, perché passo i miei turni in comunità a costruire un pensiero di
riadattamento in una posizione di ascolto partecipato e sicuro che quantomai mi sta affaticando e
quando torno a casa voglio mettere solo le mani in pasta.

Sarebbe interessante poter fare una lettura istituzionale di come si sta muovendo e di come sta la
comunità presso cui lavoro, ma ho bisogno di tempo per riassestare i miei confini interni perché
quelli esterni ci sono e sono rigidamente diversi. Forse ho bisogno di trovare un modo diverso
per sentirmi terapeuta in formazione perché in questo momento gli spazi che fino ad un mese fa
mi appartenevano non ci sono e bisogna costruirli di nuovi.

Ieri G. mi ha detto: “Valeria moriremo tutti.

Gli ho risposto “quello si, ma abbiamo ancora tempo. Dove vorresti andare aldifuori di qua? “

– Al mare, voglio aprirmi un chiosco e stare al sole e nuotare e avere una donna accanto, forse
anche più di una.

– bè mi sembra tutto meritevole per continuare a vivere.

-E tu?

– Ma sai G. che quasi quasi me ne andrei anche io al mare e sì mi piacerebbe vivere al mare.
L’ho sempre desiderato.

– eh ma tu non puoi avere fighi accanto, hai un marito.

– eh mi terrò mio marito, l’importante è che lui non abbia donne accanto oltre me!

Lui mi ha strizzato l’occhio, io gli ho sorriso, accentuandolo ancora di più per paura che G. non
potesse vederlo. Avevamo entrambi la mascherina.

Stare dentro un delirio o infondere fiducia e speranza come sostiene Yalom- la terapia è anche
questa, penso, tra i corridoi di una comunità. Non so che cosa abbia fatto di preciso. Mentre
attraversavo una Torino insolita, deserta e vuota mi sono detta che è stato bello poter desiderare e
stare nella dimensione del piacere insieme ad un paziente, sognare qualcosa che non c’è e
regalarcelo a vicenda. Con il coronavirus sentiremo sì delle mancanze ma chi lo sa non sia la
strada utile per ritornare a desiderare la dimensione del piacere.

Torino, 15 Marzo 2020.



Scritto da Valeria e inviato a Cactus Psicologia per la diffusione tramite la propria newsletter e pagina Facebook.